Dalle bustarelle ai lavori mal eseguiti: dall’inchiesta della Procura piacentina un desolante quadro di malaffare

Ci sono amministratori e tecnici che avrebbero agito per mero tornaconto personale, altri che avrebbero preso scorciatoie nell’affidare appalti. Il ruolo dei trojan nella raccolta delle prove

Se qualcuno mai decidesse di voler scrivere un “manuale sull’arte della corruzione” potrebbe trovare molti ed interessanti spunti fra le carte dell’inchiesta condotta dai carabinieri di Piacenza e dai pm della locale procura e che si è conclusa ieri (nella sua prima parte) con undici arresti e 37 persone denunciate.

Le singole responsabilità, quando (e se) saranno dimostrate in un futuro processo, sono alquanto diverse anche se riassumibili sotto due macro-categorie.

La prima è la volontà da parte di un vero e proprio cartello di imprese di avere il predominio assoluto sugli appalti edili pubblici di numerosi comuni montani, ottenuto anche attraverso un sostanziale controllo politico dell’Unione Comuni della Val Trebbia.

La seconda è la convinzione di alcuni amministratori e tecnici pubblici di poter agire svincolati dalle norme, in particolare quelle relative agli appalti, quasi fossero un’inutile zavorra di cui disfarsi.

I magistrati contestano episodi avvenuti a Corte Brugnatella, Cerignale, Bobbio, Coli, Zerba, Ferriere ma anche Piacenza ed in alcuni altri comuni perché in questa vicenda non vi sembrno essere distinzioni geografiche né tantomeno di appartenenza politica.

I tantissimi reati contestati, come si diceva, variano enormemente da soggetto a soggetto con gradazione di responsabilità che peseranno in termini di eventuali pene.

In alcuni casi il mancato rispetto delle leggi sembra essere motivato più che da tornaconti economici personali, diretti od indiretti, dal voler prendere scorciatoie, dal fare eseguire rapidamente i lavori dalle aziende “amiche” senza indire gare, magari per mancanza momentanea di fondi o per fare bella figura nei confronti dei propri elettori, dimostrandosi efficienti.

In altre situazioni, invece, parrebbe esservi un tornaconto ottenuto facendosi sovrafatturare lavori eseguiti presso attività riconducibili alla propria famiglia e chiedendo rimborsi a fondo perduto messi a disposizione dalla Camera di Commercio per le aree montane, arrivando anche a farsi fatturare lavori edili in realtà mai fatti.

Od ancora far eseguire, dalle solite imprese, lavori murari e tinteggiature presso la propria abitazione.

In questa inchiesta l’espressione latina “do ut des” parrebbe aver trovato la sua perfetta incarnazione: “ti dò un lavoro oggi (anche se legalmente non potrei) ed in cambio tu mi darai qualcosa domani. O viceversa: “mi dai una mano ora procurandomi voti alle elezioni e ti compenserò affidandoti lavori pubblici quando sarò eletto”.

Le imputazioni paiono susseguirsi come i grani di un rosario.

Ci sono amministratori che sono accusati di aver affidato lavori senza alcun appalto pubblico, salvo predisporre la gara a posteriori (una volta terminate le opere) oppure asfaltature di strade mai eseguite o eseguite solo parzialmente; gare di appalto truccate in cui imprese amiche presentavano offerte concordate così da permettere la vittoria all’azienda “prescelta”, già sapendo l’entità dei ribassi.

Non mancano fondi destinati ad alcuni lavori e dirottati verso altri, ad esempio per sistemare staccionate e viottoli in prossimità della casa del pubblico amministratore.

Di particolare gravità il fatto che in questa ragnatela di presunti rapporti e connivenze alcune opere pubbliche siano anche state eseguite non a regola d’arte.

Per fortuna – hanno spiegato ieri in conferenza stampa gli inquirenti – non si tratta di strutture importanti come ponti o simili.

Resta il fatto che i pali installati in alcuni comuni potrebbero avere i tiranti non cementati ad arte, alcuni pozzetti sarebbero privi della obbligatoria marchiatura CE, alcuni tubi avrebbero diametri inferiori a quelli previsti dall’appalto.

Nell’eterna divisione fra colpevolisti ed innocentisti non sono mancate, in queste ore, attestazioni di stima nei confronti degli indagati e degli arrestati, anche da parte di loro concittadini, increduli dinnanzi alle accuse.

E’ giusto che sia così anche perché l’intero impianto accusatorio dovrà essere dimostrato, pezzo dopo pezzo, in un’aula di giustizia e non sarebbe la prima volta che qualcuno entra in manette per uscire assolto.

C’è però un elemento da non dimenticare, il fatto che questa (come altre recenti inchieste) si poggia su centinaia di conversazioni “captate” dai “trojan”. In questa società sempre più orwelliana il peggior accusatore diventa quell’oggetto che non ci lascia mai, in nessun momento della giornata, lo smartphone.

Frasi dette in libertà finiscono per raccontare una pagina per nulla edificante delle nostre terre.

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